Arco del Padre Eterno

L’arco della S.S. Trinità è detto comunemente ‘Arco del Padreterno’ per la presenza lateralmente sotto la volta dell’arco di un piccolo altare in cui è posta l’antica statua del Padre Eterno dove la gente si radunava per pregare in particolare nei periodi di carestia e siccità.
Strutturalmente è costituito da un parallelepipedo in tufo ed è caratterizzato dalla presenza sulle pareti laterali curve di sei grandi statue poste su alti piedistalli che sfiorano la cornice posta a completamento delle paraste, sui pilastri sono scolpiti due uomini posti davanti e due dietro che fanno pensare a dei guardiani mentre in alto è presente una elegante balaustra traforata raffinatamente.

Arco del Padre Eterno
Fonte: https://spiritodelsilenzio.wordpress.com/

Era il periodo della festa di Altavilla Milicia della “Maruonna aritu”, tutti i figli di Lucia erano andati alla celebrazione.
Alla mezzanotte si chiese: “come fa mio marito a tornare solo a casa dalla stazione?”
Lui arrivava caricato, con tanta roba, questa volta i figlioli non potevano andarlo a prendere per aiutarlo, lui potava panieri e valigie. Arrivava col treno di Vallelunga-Bagheria col tragitto di tre ore circa.
Me maritu stava p’arrivari
Io pinsavu ca era megghiu ci ava ‘ncontru.
Arrivavu o Pata tiennu.
Attuornu mi stava taliannu.
Unu prima mi rissi:
“Tutta stupita si? Vatinni da!
Propria o Pata tiennu ha ghiri?”
Io c’aveva agghiri pi fuozza.
Me maritu carricatu vinieva.
Acchianava ra staziuoni a pieri.
Mi fimmavu o Pata tiennu
tutto o scuru era.
Paria un c’era nuddu e inveci…
Lucia aspettava il marito, era una notte di settembre fredda e umida, aveva appena piovuto.
L’uomo faceva un lavoro molto pesante e portava carichi per la famiglia e per la sua attività familiare, doveva sostenere una numerosa famiglia della Sicilia del 1935.
Le strade erano rocciose e piene di polvere, il vento alzava la sabbia. La luce della luna aiutava le fiammelle dei pilastri che contenevano la piccola e povera illuminazione a petrolio.
Quasi quasi non si percepiva nulla. Solo l’avvicinarsi di qualcuno a un metro da lei, come un possidente dei terreni di quel posto.
“Lucia O’ Pata tiennu sta iennu?”
“Ciertu Don Antria, me maritu ha ghiri a pigghiari.”
“Piffozza da’ l’aspittari?
“Ciertu!”
“Vatinni a casa che megghiu, o aspettalu ca’ vieniri avi!”
“No Don Antria, carricatu è!”
U lassai ‘ntririci e m’innivu.
Arrivata all’arco, si fermò cercandosi un posto luminoso dove poteva avvistare il marito che saliva, aspettava sola.
Aveva raggiunto quel posto non ascoltando le premure di quell’uomo che la esortava a non andare li.
U’ Pata tiennu è un arco che apre la Via Palagonia di Bagheria a quei tempi un paesino della provincia di Palermo come Altavilla Milicia. Questa via, ai tempi molto scuognita, desolata, arrivava fino l’antichissima villa Palagonia, dei mostri o demoni.
L’arco è fatto di tufo, sui pilastri sono scolpiti due uomini posti sia davanti che dietro, in tutto quattro. Fanno pensare a dei guardiani. Lateralmente sotto la volta dell’arco sorge un piccolo altare dove è posta l’antica statua del Padre Eterno. Nei periodi di carestia e siccità la gente andava lì a pregare.
Lucia osservava le due statue. Un soffio di vento, un brivido lungo la schiena, qualcosa dentro di lei le dice che li adesso non è sola, si volta verso la sua destra e scorge non molto lontano una sagoma, era di un uomo, stava immobile fermo stranamente in un punto. La figura era sospetta ma la donna penso’ subito a qualcuno che volesse farle uno scherzo.
Passarono attimi, secondi, minuti ma la sagoma era immobile. Questo suo stato le suscitava un senso di stranezza, si preoccupò.
“Lazzaruni va pigghia a to patri!” Disse facendosi coraggio volendo pensare che quello era uno dei suoi figli che era tornato per aiutare il padre.
Lucia lo osservò meglio ma vide che non aveva la testa e il suo corpo fu invaso dal terrore, si fece ancora coraggio, la sagoma intanto si spostò come se non camminasse, immobile da un posto all’altro rapidamente, da sinistra a destra.
Questa volta reagì Lucia e corse via, pensando agli altri suoi bimbi soli a casa terrorizzata dal fatto che quello spettro potesse andare a casa sua e fare a loro del male, una volta che aveva lasciato la porta di casa sola.
Un suono, un nitrito, zoccoli che galoppavano sulla nuda roccia, ruote di un carro che stridevano, qualcosa la inseguiva la sua corsa era senza fine.
Era lui la stava inseguendo, non voltandosi arrivò alla porta di una parente, bussò in preda al panico, un altro suono terribile, come una frana, crollò qualcosa, un palazzo, dietro le sue spalle.
Si voltò finalmente, la donna le stava per aprire, dietro di lei nulla, tutto era al suo posto.
Tempo dopo in quel posto su di una casa ad angolo che dava sulla grande strada di Via Palagonia un suo figlio vide qualcos’altro.
La testa di una donna posta sul davanzale di una finestra chiusa foderata da una rete di pescatore, era bionda con degli occhi enormi inumani che lo osservavano.
Terrorizzato scappò via e non volle più una volta tornato a casa fare quella strada. I fratelli dal racconto continuavano a prenderlo in giro cantandogli:
“O mia bella Biancherrussa calami i trizzi quant’acchianu!”
“O mia bella bianca e rossa abbassami le trecce che salgo.”
Nella Bagheria del 2000 si sentivano raramente queste storie ma accadde qualcosa di ancora più inquietante, si dette una documentazione su carta a questi eventi con una ricerca fatta da me sulla città del 1400 scoprì che l cappella sotto l’arco era stata costruita per quietare le anime vaganti dei briganti, assassini, e delle donne adulterine che giustiziavano sotto l’arco mozzandogli la testa con l’ascia.

Una storia vera scritta da M. Elena Maggiore.
Una delle tante storie dell’arco.